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Un modello di carcere da portare a scuola

Pubblicato il: 14/07/2010 19:38:12 -


Esiste un’identità, nell’estrema differenza, tra ciò che può avvenire in un carcere e quello che può accadere nella “normalità” scolastica. Ma poi la scuola non è in fin dei conti anch’essa un carcere sui generis? Considerazioni in margine a un articolo di Antonio Capaccio.
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Bisognerebbe sempre ripartire dai classici. Nel nostro caso, innanzitutto per salvarci dalle aporie di una letteratura psicopedagogica non di rado talmente autoreferenziale da riprodurre, nel suo idioma, le gabbie da cui vorrebbe liberarci come educatori; e successivamente, anche per scoprire che le idee di cui troppo orgogliosamente ci facciamo portabandiera da qualche anno o decennio, hanno in realtà qualche secolo di storia.

Prendiamo “Gli anni di peregrinazione di Wilhelm Meister”, terzo atto del più importante bildungsroman della letteratura occidentale. Molto avanti nel racconto, del tutto inaspettatamente, veniamo a sapere che tutte le peripezie del protagonista si sono svolte sotto lo sguardo di un Grande Fratello esattamente opposto, per spirito e finalità, a quello ormai tristemente noto a tutti: sono gli amici della “Società della Torre”, un’occulta confraternita di filantropi-pedagoghi che vigila a distanza, talvolta intervenendo discretamente nelle vicende in modo da condizionarne gli esiti, sulla formazione dell’eroe goethiano. Quale migliore rappresentazione di ciò che dovrebbe essere un magister che non si sostituisce eteronomicamente all’alunno facendone una sua protesi, ma lascia spazio al suo diritto di “errare”, nel duplice senso di percorrere liberamente un campo non circuitato e, al tempo stesso, di commettere gli errori che, se anticipatamente evitati, saranno eternamente ripetuti? Non è un caso che Goethe chiami Meister il suo eroe: artefice di un’autopoiesi in cui l’essere magister sui non denota affatto una presunta autosufficienza dell’ “errante”, quanto piuttosto l’idea, antica come il motto delfico, che si diventa ciò che si è in barba a ciò che si crede di essere, o che si vuol diventare. E questo, soprattutto, abbandonandosi a un divenire in cui gli altri (tra cui i maestri) giocano un ruolo fondamentale. E così il nostro Wilhelm, sfuggito da giovane al suo destino borghese inseguendo una compagnia di teatranti girovaghi col sogno di scrivere e interpretare drammi, aiutato poi a “diventare se stesso” da un Goethe maturo che lo affida alla regia accorta e invisibile della Società della Torre, si ritrova alla fine nel Nuovo Mondo a esercitare la professione di chirurgo: beruf (lavoro-missione) che tanto per la sua vocazione congenitamente altro-centrica, quanto per la sua perfetta fusione di saperi teorici e pratici, incarna la completa fuoriuscita dai miraggi narcisistici dell’ego e la meta raggiunta di una formazione integrale. Ma incarna anche, insieme a tutto il percorso compiuto, la realizzazione artisticamente trasfigurata di quel grande modello pedagogico a cui Goethe guardava con ammirazione e di cui era convinto sostenitore: la scuola e il pensiero di Pestalozzi.

Insomma, la lettura e l’ “autentica interpretazione” pedagogica di un classico come questo – e di quanti altri fondamentali romanzi di formazione, a partire da “Alice nel paese delle meraviglie” – potrebbe offrire un viatico assai più nutriente, a chi ancora coltiva la follia di diventare insegnante, di tanta bibliografia prevista da certi esami di abilitazione…

Coerentemente ai modelli qui sopra evocati, abbiamo avviato in modo obliquo una riflessione su un paio di questioni ineludibili poste da Antonio Capaccio nel suo articolo sui “cadaveri squisiti”, pubblicato in Community l’11 giugno scorso. Ciò che infatti colpisce, più ancora del carattere “estremo” dell’esperienza lì illustrata (che si svolge nel contesto carcerario, con allievi adulti, privi di basi culturali, conoscenze linguistiche, eterogenei per provenienza, in perpetuo avvicendamento a causa dei diversi percorsi espiatori) è la validità trasversale della sua ispirazione e dei suoi assunti, proprio al di là e perfino in contrasto con l’estrema singolarità del contesto e la particolarità del terreno disciplinare, o meglio creativo, in cui si muove (le arti grafiche). Ebbene, ho scoperto che questi assunti e queste prospettive metodologiche sono molto vicine alle mie, che pure insegno italiano in una scuola media-media (ceto medio, quartiere medio, basi culturali e standard di apprendimento medi…). Ma si tratta, guarda caso, degli stessi orientamenti che abbiamo evocato con l’aiuto di storie e personaggi ben più emblematici della nostra esperienza, e con qualche provocazione di supporto: l’idea di una scuola in cui l’errare venga prima del correggere, il co-struire prima dell’ i-struire, e la funzione magistrale sia giocata da una linea d’ombra che permetta a ogni alunno di farsi pian piano, conoscendo-si per tentativi ed errori, magister sui, ovvero Meister sich selbst, in termini goethiani.

Dice infatti Capaccio: “Spiego agli studenti che la prima regola di un lavoro creativo è che s’impara sbagliando, o che forse innanzitutto ‘bisogna imparare a sbagliare’ (nostra evidenziazione), e se si è molto fortunati si conserva questo dono nel tempo”. Ma non è quello che ci insegna il Meister? E non è ciò che, correttamente interpretate, troviamo nelle radici greche della parola autodidatta, che non significa affatto “colui che impara da solo”, ma addirittura, letteralmente, “colui che insegna a se stesso”?

Qui però sembra aprirsi un circolo vizioso: come può insegnare a se stesso colui che non sa? Non giova a risolverla la precisazione che autodidatta è precisamente colui “che sa scegliersi e ascoltare i maestri”. Anche questo bisogna imparare a farlo. Ma qui ci soccorre il secondo grande tema posto da Capaccio, quello della creatività: “La creatività non è uno scherzo. Come forma aperta e dinamica del linguaggio, essa aiuta a comprendere e ad accogliere; ci libera da ogni certezza, ma ci restituisce una coscienza più profonda di noi stessi.” Ed è proprio la creatività, aggiungo io, il terreno sul quale, come su un piano d’intersezione, può giocarsi quell’incontro maestro-alunno in grado di dissolvere l’aporia dell’“ignorante” che insegna a se stesso. Perché è su questo terreno che il maestro, mettendosi in gioco “alla pari” con l’allievo, può innescare quel transfert che lo trasforma in, anzi risveglia il “maestro interiore” del suo alunno. E potrei rilanciare, moltiplicando al cubo: trasformare i nostri alunni in autodidatti, ecco quale dovrebbe essere la meta suprema del lavoro magistrale!

Molto ci sarebbe da dire ancora su questo punto, ma quello che per ora mi interessa sottolineare è invece, come torno a ripetere, l’identità, nell’estrema differenza, tra ciò che può avvenire in un carcere e quello che può accadere nella “normalità” scolastica, a riprova di un comune terreno archetipico a cui attinge la creatività. E anziché portare la scuola in carcere, Capaccio ci offre un modello di carcere da portare a scuola. Ma poi la scuola non è in fin dei conti anch’essa un carcere sui generis?

Ci piacerebbe ripartire da questa provocazione per offrire, in una prossima occasione, una nostra testimonianza sulle risorse della creatività nella scuola “normale”.

Francesco Lizzani

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